Mettere a frutto le comunità online

Se il trend di penetrazione dei social media all’interno della società e delle organizzazioni non accenna a rallentare, fortunatamente di ugual passo cresce anche la nostra comprensione delle dinamiche che rendono questi spazi digitali appetibili e vibranti.

Uno studio molto significativo in termini di indicazioni e lezioni apprese era stato l’anno scorso 2008 Tribalization of Business: How to Achieve Trasformational Change through Communities and Social Networks, di Beeline Labs e Deloitte & Touche. Il lavoro ha ora raggiunto la sua seconda edizione aggregando di nuovo una quantità enorme di dati. Di seguito trovate in anteprima i segnali a mio avviso più significativi.

Tipologia di Community

Questa volta la survey è stata compilata da un campione di 430 aziende impegnate in progetti di community (per il 52% esterni, 32% ibridi, 12% interni) pensate innanzitutto per:

In particolare il supporto ai clienti e le relazioni pubbliche sono le voci in più forte crescita rispetto al 2008. All’interno del firewall il 10% delle community è legata ad un processo di lavoro (quindi qualcosa di diverso del classico concetto di gruppo online), il 35% è completamente orizzontale, mentre un 45% è ibrida. Tra le iniziative esterne il 60% è sui clienti,  il 35% sui prospect, il 30% sui partner.

Cosa si aspettano di portare a casa gli owner di questi spazi?

ma i dati mostrano ancora una frequente incertezza sulla capacità di raggiungere fattivamente questi obiettivi, in particolare per quanto riguarda gli effetti sulle vendite, l’introduzione di nuove idee dall’esterno e la riduzione del costo di acquisizione dei clienti.

Dipartimenti coinvolti e modalità di lancio

  • I dipartimenti coinvolti nel lancio di community online sono innanzitutto il marketing (45%), l’IT (25%), le vendite (20%) ed il customer service (15%), sviluppate nel 55% senza alcuna partnership esterna con altre community, direttamente con gli utenti finali o con altre aziende.
  • Anche la gestione sembra risiedere principalmente nel marketing con l’uso di risorse interne assegnate full-time sul progetto almeno nel 60% dei casi (contro un 33% in cui il community manager è assente o occupato anche in altre mansioni).
  • I budget si limitano spesso a 50K$ (55%) e comunque di norma non superano i 200K$ (altro 25%). Queste cifre dovrebbero però salire nei prossimi 12 mesi nel 45% delle aziende coinvolte nello studio
  • Solo nel 20% dei progetti si è ritenuto necessario premiare gli utenti più attivi/rappresentativi dando loro il ruolo di ambasciatori del brand
  • Andando un pò contro un assunto estremamente diffuso di evoluzione del progetto per fasi, ben il 40% degli intervistati ha dichiarato di non utilizzare pilot (vedi il post di Michael Idinopulos)

Misurazione dei risultati

Se da una parte sempre più aziende sembrano avere chiaro in testa dove vogliono arrivare con le community in termini di awareness, passaparola, miglioramento della percezione del brand, buzz, incremento delle vendite e dei leads, le metriche utilizzate paiono ancora troppo tradizionali ed inadeguate a tracciare il raggiungimento degli obiettivi di business:

ed ancora più ad evidenziare gli sforzi necessari a superare le barriere di adozione che in larga parte ancora permangono (non molto diverse da quelli del 2008):

Queste difficoltà sono probabilmente testimoniate anche dal basso numero di membri attivi nelle community analizzate che nel 55% dei casi non supera le 500 unità (solamente per il 20% dei partecipanti si superano i 5000 utenti)

Conclusioni

Cosa possiamo trarre da tutto questo?

Esistono sicuramente segnali di maturazione nel rapporto tra aziende e community per una maggiore attenzione anche agli utenti che non partecipano attivamente (ma che traggono comunque beneficio dalle informazioni pubblicate), dall’integrazione delle piattaforme online con iniziative offline, dalla più forte attenzione agli obiettivi di business e dall’incremento dei budget.

Rimangono però anche indicazioni di confusione come il raro utilizzo di metriche realmente connesse ai processi ed al business (cioè non le page view o il tempo speso sul sito), lo scarso collegamento con le vendite e la grande fatica nelle attività di community management così centrale (vedi il post di Dion Hinchcliffe), ma nel 33% privo di risorse dedicate.

In compenso inizia ad essere chiaro almeno cosa davvero non funziona:

  • Gli utenti non arriveranno da soli: perchè gli utenti partecipino servono contenuti professionali, community management, eventi online/offline ed animazione continua
  • Racchiudere le community dentro i silos aziendali esistenti: non ci si può attendere che gli utenti vogliano parlare, interagire e rimanere all’interno di confini predisposti a tavolino dall’alto. La community se ha successo diventa proprietà di chi la vive e l’azienda deve essere pronta ad ascoltarla e far evolvere lo spazio di conseguenza
  • Servono lo stesso obiettivi chiari: senza un lavoro attento ed accurato iniziale di definizione degli obiettivi e delle metriche connesse, non potrete dire facilmente se il progetto sta andando nella direzione giusta o cercare di raddrizzarlo quando questo non stia succedendo
  • Rifiutarsi di ascoltare e di prendere spunto dagli altri: se la community parla l’azienda deve sapere ascoltare e rispondere. Se ci sono esempi di successo da cui prendere spunto, meglio farlo per non dover apprendere lezioni amare sulla propria pelle.
  • Lanciare una community, ma continuare a pensare ad un sito: per trarre vantaggio da una community, la stragrande maggior parte delle aziende deve voler onestamente cambiare mentalità, pensando a tribù invece che a segmenti di mercato (le community devono rispondere ad un bisogno o una passione), pensando ad una rete non ad un canale (le persone vogliono parlare con altre persone, non con l’azienda), pensando prima a ciò che vogliono gli utenti non l’azienda, accettando l’emergere di esigenze dal basso probabilmente non conformi ai processi o paletti che avremmo immaginato all’inizio.

Aldilà di tutti i numeri, i segnali, gli spunti di cui questo studio è davvero zeppo, le comunità online sono così importanti perchè stanno andando ormai a toccare tutti i processi dell’impresa rendondoli velocemente sociali, incrementando il peso del fattore umano per ridurre i costi di transazione.

Questa è l’eredità più pesante dell’Enterprise 2.0 e la tabella seguente è un punto di partenza su cui ci sarebbe molto da riflettere:

Cosa pensate in particolare di questa ultima tabella? Potrebbe fornire un percorso di evoluzione dell’intera organizzazione?

Emanuele Quintarelli

Entrepreneur and Org Emergineer at Cocoon Projects | Associate Partner at Peoplerise | LSP and Holacracy Facilitator

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