Vi rilancio brevemente gli spunti che emergono da un bell’articolo pubblicato da McKinsey in What Matters ed intitolato Using technology to improve workforce collaboration. Il pezzo è particolarmente apprezzabile per la sua capacità di sottolineare l’importanza che i knowledge worker rivestono nell’economia odierna e come la tecnologia sia in grado di migliorarne un nuovo tipo di efficienza, non sui processi ma sulla collaborazione.
Ciò che moltissime aziende non hanno ancora capito è come il loro futuro non si giochi più tanto sulla perfezione nel produrre mattoni, macchine o pezzi di legno, quanto nel saper ottenere il massimo dalla testa delle persone che impiegano. Se Ford si dannava l’anima per il non poter pagare solo le braccia dei suoi lavoratori (“Non capisco perché quando ho bisogno di due braccia devo pagare tutto il corpo”), oggi il problema si inverte radicalmente portando l’economia moderna ad un disperato bisogno di idee e conoscenza per differenziarsi, competere e restare in vita.
Vediamo alcuni dati:
- Il peso dei knowledge worker continua ad aumentare tanto che nel 2011 potrebbero costituire quasi il 50% della forza lavoro americana. In alcuni settori come salute e formazione già oggi ben il 75% dei dipendenti lavorano principalmente sulla conoscenza e negli Stati Uniti il loro stipendio è pari al 18% del GDP
- I knowledge worker rappresentano un asset costoso per le aziende dato che in media guadagnano dal 55% al 75% in più degli impiegati con mansioni legate alla produzione o alle transazioni
- Le aziende non sanno ancora come ottenere il massimo dai knowledge worker considerato che il gap di performance tra la migliore e peggiore compagnia nei settori che richiedono una forte collaborazione è nove volte quello dei settori centrati su produzione e transazione
Dopo decenni di ottimizzazione sulla produzione e sui processi, la vera sfida a cui le aziende sono esposte è quindi come ottimizzare le performance dei knowledge worker, trasformandoli da una spesa elevata e crescente ad un fattore strategico di confronto sul mercato. Se però è facile misurare la produttività della produzione sul numero di pezzi prodotti, le transazioni in termini di numero di operazioni per ora, come misuriamo la produttività della collaborazione?
La domanda non è per niente retorica dato che McKinsey stima che tra il 20% ed il 50% del lavoro collaborativo sia in realtà sprecato a causa di meeting inutili o pianificati male, viaggi non produttivi, overload di email non necessarie, etc. Ottimizzando la collaborazione Cisco ha risparmiato in 18 mesi la bellezza di 100M$ in costi in spese di viaggio, mentre P&G ha incrementato il numero di prodotti creati all’esterno dell’azienda dal 35% al 50% ottenendo un’offerta più ampia e cicli di produzione più brevi.
Visto che, a differenza di produzione e transazioni, la maggior parte dei manager non sono per nulla preparati nell’ottimizzare ed ottenere il massimo dalla collaboration, McKinsey propone due step:
- Classificare i knowledge worker in base al flusso di attività che compiono ogni giorno
- Mappare le nuove tecnologie ai workflow identificati, per ampliare la collaboration, aumentare l’efficacia e ridurre le inefficienze
Sul primo punto, invece di guardare a dipartimenti, titoli e posizioni nella gerarchia aziendale, a partire dalle ricerca vengono formulati 12 profili collaborativi in base alla qualità e quantità dei task che i dipendenti sono chiamati a compiere:
- Amministratore: esegue ripetutamente un processo standard o ben definito
- Agente: rappresenta gli interessi di altri
- Aiutante: fornisce aiuto fisico per il completamento di un compito
- Buyer: acquista beni e servi per altri
- Consulente: raccoglie informazioni e fornisce consigli in base ad esperienze passate e nuove evidenze
- Creatore: progetta prodotti nuovi ed innovativi
- Docente: insegna e trasferisce nozioni agli altri
- Investigatore: esamina fatti ed informazioni per evidenziare cause ed effetti
- Manager: supervisiona persone e processi di business
- Performer: si esibisce di fronte ad altre persone
- Venditore: interagisce con altri per vendere un prodotto o presentare offerte
- Scienziato: progetta esperimenti e conduce ricerca di base per testare ipotesi o produrre nuove scoperte
Ad ogni profilo sono associate una serie di incombenze che lo caratterizzano e da queste si fanno discendere le tecnologie di supporto più utili in tre passaggi:
- Comprendere i bisogni collaborativi dei task compiuti da ogni profilo (utilizzando dimensioni come numero di persone coinvolte, flusso dell’informazione, quantità di informazione condivisa da ogni partecipante, attraversamento di confini dipartimentali o aziendali, etc.)
- Ordinare i task in base al valore che generano guardando agli obiettivi di business dell’azienda. Gli obiettivi possono essere l’aumentare la relazione con il cliente, il generare più idee, ridurre i cicli di lancio dei nuovi prodotti, essere più reattivi, etc.
- Portare alla luce le inefficienze collaborative che affliggono le interazioni legate ai task a partire dalla tabella seguente:
Chiaramente le tecnologie Enterprise 2.0 possono fare molto per limitare queste inefficienze garantendo una maggiore trovabilità dell’informazione (searching), più trasparenza e quindi minori disallineamenti politici (divergenza), minori problemi di comunicazione (undercommunicating, interpreting, translation), scambi più veloci (waiting), più ricchezza di dettagli (misapplication), etc.
Per esempio la capacità di trovare facilmente tutta la competenza e gli esperti di cui un’azienda dispone (searching) è uno dei più forti benefici permessi dall’introduzione di un social network con funzionalità di tagging, mentre i problemi di interpretazione possono essere alleviati tramite il messaging dando alle persone la possibilità di porsi continuamente domande laddove qualcosa non sia chiaro. Aggregando statisticamente tutte le indicazioni raccolte, per ogni profilo viene così viene tirata fuori una tag cloud di tecnologie di supporto (vedi ancora il tool di analisi interattiva)
Conclusioni
La metodologia abbozzata in questo articolo affronta esplicitamente un problema sempre più rilevante in questa nuova economia basata sulla conoscenza. Un problema di fronte a cui buona parte del management mostra ancora poca consapevolezza ed ancora meno strumenti per dare una risposta.
La ricerca presentata dovrebbe (rimane il dubbio non conoscendo i dettagli del campione) avere il merito di analizzare statisticamente i bisogni collaborativi esposti dai knowledge worker delle aziende americane, per delineare un processo sistematico di soluzione delle inefficienze più importanti connesse a questi bisogni. Insomma, dal problema fino alla tecnologia collaborativa che lo risolve meglio.
Il mio dubbio è proprio questo: l’ipotesi di fondo è ancora una volta che questa soluzione sia in larga misura tecnologica e si tratta della stessa perplessità di fondo espressa da molti lettori nei commenti dell’articolo.
In altri termini siamo proprio sicuri che sia sufficiente introdurre qualche nuova tecnologia per migliorare il modo in cui gli esseri umani collaborano? Quanto conta la tecnologia e quanto invece bisogna prima lavorare sulla persona, sul gruppo e sulla stessa cultura complessiva dell’organizzazione, plasmata dall’alto negli anni secondo principi così lontani dalle logiche di collaborazione?
A mio avviso quello di cui abbiamo bisogno per ottimizzare sistematicamente gli scambi umani nelle aziende di oggi è piuttosto un framework olistico, che analizzi i bisogni dei knowledge worker non solamente in termini di task, ma anche e specialmente sul piano emotivo, motivazionale e culturale. Con ogni probabilità, partendo da questa prospettiva più ampia, anche la risposta da proporre dovrà per forza di cose essere più ricca, sistemica e sfaccettata.