Quando sono invitato a portare la mia esperienza sul contributo che l’Enterprise 2.0 è in grado di fornire alle aziende in questo contesto economico, buona parte del mio discorso verte su un aspetto così semplice da sembrare forse utopico: cambiare il modo in cui l’organizzazione tiri dentro le persone nei risultati, nel contribuire attivamente alla crescita ed alle decisioni di business, nel migliorare la qualità del servizio, nell’agire come creatori dell’innovazione.
In una parola, coinvolgere. Appunto puntare sull’engagement con modalità lontane da quelle tipiche della catena di comando di stampo tayloristico: facendo invece leva su temi come la passione, la trasparenza, il lavorare per un fine più alto ed ambizioso, il sentirsi parte di un’identità, la condivisione di pratiche in contesti di crescita continua dell’individuo, il riconoscimento di meriti e contributi.
Cos’è l’engagement? L’Engagement è la voglia e la capacità dei dipendenti di contribuire al successo dell’organizzazione mettendo a disposizione volontariamente tutta la propria energia, creatività e passione a più livelli: razionale (capire operativamente il proprio ruolo e responsabilità), emozionale (mettere anima e corpo nel lavoro), motivazionale (sentirsi al posto giusto all’interno dell’organizzazione).
Potremmo allora domandarci quanto engagement ci sia nelle aziende di oggi. La risposta purtroppo è poco, pochissimo almeno stando a quanto mostrato dalla recente Global Work Survey di New Towers Perrin su 90K dipendenti in 18 paesi:
La situazione è disastrosa dato che solamente 1/5 dei dipendenti da veramente il massimo, contro più del 40% che pur avendo capacità non da tutto ed un altro 38% che fa il minimo possibile. In Italia gli engaged scendono addirittura all’11%, contro il 29% degli Stati Uniti.
Stiamo parlando dell’Engagement Gap: della distanza tra il contributo di cui i datori di lavoro avrebbero bisogno da parte dei propri dipendenti per competere in questo momento storico e la loro capacità di ottenere realmente questo contributo da una percentuale significativa degli assunti.
Perchè è così cruciale colmare questo gap? Perchè in un’economia della conoscenza e della creatività, di fronte ad una permanente necessità di reinventare competenze che diventano in fretta obsolete, mantenere un vantaggio competitivo significa mantenere una forza lavoro motivata:
Il livello di engagement si traduce in differenze sostanziali sia a livello di risultato operativo (EBIT) che di utili per azione, ma il legame è ancora più profondo dato che nelle aziende con alto engagement i dipendenti sono anche convinti di poter incidere più profondamente sulla qualità del servizio,sulla soddisfazione del cliente, sulla redditività, sull’innovazione, sulla riduzione dei costi e sulla crescita del fatturato. Ed il bello è che si vede come oltre ad essere meno profittevoli, le aziende con dipendenti insoddisfatti rischiano anche di perdere i propri talenti, dovendosi invece tenere i lavoratori più demotivati (che nel 50% dei casi non ci pensano proprio ad andarsene).
L’aspetto forse più grave è però la colpevole ignoranza delle società sul loro ruolo nei meccanismi che regolano l’engagement. Molto spesso la responsabilità viene scaricata banalmente sui dipendenti sfaticati per natura o sui loro manager che non li sanno motivare abbastanza.
La realtà è tuttavia diversa: è l’azienda ad avere un compito centrale nel motivare i propri dipendenti, che si, vogliono sicurezza e tempo libero, ma anche sfide ed attività che facciano crescere il loro bagaglio di competenze:
Se i dipendenti non nascono così svogliati e demotivati, di chi è la colpa e quali azioni possono essere messe in campo per rovesciare il quadro attuale?
Lo studio mostra come intuitivamente ciò che fa la differenza è l’ambiente e la stessa natura dell’esperienza di lavoro in termini di valore dei prodotti per il cliente, trattamento corretto, ascolto e sincero interesse del management verso il futuro dei dipendenti. Tutto questo oggi non avviene affatto, dato che solo 1 dipendente su 10 ritiene che il management consideri gli impiegati come l’asset più importante.
La via d’uscita affinchè i leader abbiano un influsso più positivo sui dipendenti sembra allora essere duplice:
- Servono innanzitutto nuovi concetti di leadership e di management che al carattere forte ed autoritario del tipico capo aggiungano skill inedite ed ancora rare come autenticità, grande intelligenza emotiva, doti di comunicazione e coaching, capacità di ispirare
- Ad un livello più alto, la stessa cultura aziendale deve evolvere, in generale per essere più allineata con le priorità di business (chi vende prodotti di lusso si può permettere una cultura diversa da chi produce tondini di ferro), ma anche dotarsi di alcuni tratti comuni:
Ora se ci fate caso la cultura d’innovazione appena descritta è partecipata (emotivamente ed operativamente), aperta al nuovo (provenga esso dall’interno o dall’esterno) ed è trasparente e meritocratica. In una parola è quella di un’Enterprise 2.0!
Stiamo parlando quindi di management o di community? E se fossero due mondi sempre meno distanti? E se non fossero solamente le modalità di leadership meno gerarchiche e più partecipate a favorire i progetti di social networking aziendale, ma al contrario il social networking fosse l’ispirazione per un diverso modello di management?
Io credo che qui sia il futuro della competizione.
Per approfondire vi rimando allo studio di New Towers Perrin ed all’articolo Management’s Dirty Little Secret pubblicato da Gary Hamel sul Wall Street Journal.