Enterprise 2.0 verso l’adolescenza – Parte 1

A diversi anni dalla nascita del concetto, l’Enterprise 2.0 ha vissuto sul mercato fasi di aperto scetticismo, fiduciosa speranzamomenti di conferma seppur in uno stato di forte immaturità ed infine passaggi di consolidamento e crescita, anche in Italia.

Grazie all’esperienza (ed ai passi falsi) di consulenti e pionieri, coloro che si avvicinano oggi per la prima volta all’impiego della collaboration, dell’intelligenza collettiva, del coinvolgimento dei dipendenti nel miglioramento dei processi e della performance di business, possono partire da un insieme di lezioni utili ad aggirare le cause più frequenti di fallimento per i progetti Enterprise 2.0.

In questa serie da due post, proveremo innanzitutto a riassumere alcuni approcci emersi dal mercato come particolarmente efficaci per il passaggio verso l’Enterprise 2.0, mentre nella prossima puntata misureremo lo stato di maturità dei progetti in corso rispetto alle best practices aiutandoci con uno studio appena pubblicato da Chess Media Group e di cui Open Knowledge è media partner.

In base alla mia esperienza il decalogo dei comandamenti dell’Enterprise 2.0 potrebbe apparire così:

  1. L’Enterprise 2.0 non si compra, non si impone e non si implementa. E’ un paradigma di business. Perché l’introduzione di social software produca un qualche beneficio organizzativo è necessario pensare in qualche misura ad un percorso di evoluzione delle pratiche di management e di leadership nonché ad approcci di coinvolgimento, incentivazione, recruiting e motivazione radicalmente nuovi delle persone.
  2. L’adozione è un processo emergente ed iterativo di cambiamento. La natura intrinsecamente non lineare, complessa e bottom-up dell’Enterprise 2.0 (si tratta di persone non di bit) impone modalità diverse anche per la conduzione dei progetti con un focus più sul change management che sul deployment di tecnologie. Piuttosto che ad un’autostrada con telepass, l’Enterprise 2.0 somiglia più ad una strada di campagna un pò accidentata, senza mappa esatta e con qualche sorpresa lungo il percorso. Piuttosto che gestirle, le community si coltivano tramite un processo di attrazione dei partecipanti, di tessitura graduale delle relazioni, di ascolto dei bisogni, di trasferimento della ownership sulle persone, di contaminazione del resto dell’organizzazione.
  3. Fornisce benefici limitati se gestita da un solo dipartimento. Dovendo creare, diffondere ed in buona misura far accettare il cambiamento, l’approccio più efficace è quello inclusivo, coinvolgendo tutti gli stakeholder dall’inizio per evitare inutili barriere psicologiche o dimenticarsi aspetti importanti della cultura aziendale. Dato che i pilot nascono in genere negli angoli più sperduti dell’organizzazione a partire dalla scintilla di qualche manager particolarmente illuminato, l’arrivo ad un modello di governance condiviso richiede a volte tempi molto lunghi.
  4. Serve un commitment dall’alto. Andando spesso contro lo status quo, rompendo i silos aziendali, rendendo più trasparente l’organizzazione, imponendo un’evoluzione delle abitudini di lavoro per superare l’attrito iniziale è indispensabile ottenere l’appoggio della testa dell’impresa. Anche questo aspetto è però di norma un punto di arrivo che richiede preparazione, maturità, pazienza e consapevolezza da parte di chi propone il progetto.
  5. Lo sforzo più grande va messo nel community management e non nella tecnologia. Se nei progetti IT di norma quasi tutto il budget è indirizzato nel comprare, implementare e nei casi migliori integrare l’ultima piattaforma di collaboration, chiunque abbia lanciato un progetto Enterprise 2.0 sa benissimo che il passaggio più rischioso e faticoso parte subito dopo. Meglio individuare le competenze, le risorse ed il processo giusto per portare a casa il risultato. In particolare, nel caso di aziende di grandi dimensioni, il percorso di adozione necessita di gruppi ampi di ambasciatori che agiscono in modo capillare e gerarchico.
  6. Misurare ritorni economici e benefici di business non è optional. Se esplicitare il valore generato per l’organizzazione andando ad agire su dimensioni tacite, sottili, intangibili come conoscenza, motivazione, coinvolgimento, collaborazione, connessione non è certo banale, una mancanza di framework e metriche di misurazione indica spesso non solo un’immaturità del progetto, ma anche un pericoloso scollegamento con gli obiettivi di business dell’azienda
  7. Non è solo questione di efficienza, ma anche di reattività ed adattività di fronte alle eccezioni. Dopo decenni di investimenti sull’ottimizzazione a tutti i costi dei task più prevedibili e ripetitivi, ci siamo finalmente resi conto della nostra incapacità manageriale nel capitalizzare il patrimonio più importante oggi disponibile nelle aziende: la creatività, la passione, la voglia di fare delle persone. Rompere i silos, decentralizzare il potere decisionale, aumentare l’autonomia degli individui e coltivare i flussi di conoscenza all’interno ed all’esterno dell’impresa significa costruire meccanismi per reagire tempestivamente ai cambiamenti del mercato ed innescare un ciclo di miglioramento continuo dei processi tradizionali
  8. I pilot non vanno lontano senza una strategia. Partire da esperimenti limitati e poco costosi per mostrare dei quick-win è quasi sempre la strada giusta per prendere confidenza con l’Enterprise 2.0 tranquillizzando il management su rischi, impatti, risultati ottenibili. Il progetto deve però uscire da questa fase embrionale ed identificare un processo che scali sull’intera organizzazione per non diventare irrilevante rispetto alle questioni sul tavolo del senior management.
  9. Non c’è valore senza adozione. Non c’è adozione fuori dal flusso. Se nei primi progetti e nella maggior parte dei pilot si tende per semplicità a mantenere la collaboration separata dal resto delle iniziative dell’organizzazione, nel lungo termine questa scelta non fa che creare l’ennesimo silos, seppure un silos sociale. Per ovviare a questo problema e candidare l’Enterprise 2.0 a soluzione realmente rilevante per il business e per i dipendenti, è necessario connetterla con i processi esistenti (socializzandoli), con i flussi di lavoro, con la cultura aziendale. Tutto questo non avviene per caso, ma va progettato con cura e coinvolgendo i diretti interessati (gli utenti finali ed i relativi stakeholder).
  10. Non c’è adozione senza vantaggio per le persone. Gli individui non si prendono la briga di cambiare il proprio modo di lavorare perché è stato imposto loro di farlo. Il cambiamento non può essere spinto dall’alto, deve essere motivato, sostenuto e digerito. Nella mia esperienza la leva più forte non è l’incentivazione estrinseca (se lo fai ti premio o se non lo fai ti punisco), ma il vantaggio individuale in termini di carriera, visibilità, soddisfazione, coltivazione di una passione, risparmio di tempo o di fatica. Gli effetti positivi del cambiamento sono difficili da valutare correttamente a priori dalle persone coinvolte. Al contrario le paure sui possibili effetti negativi sono molto potenti. Uno degli obiettivi più importanti del progetto deve per questo essere la visualizzazione dei ritorni personali in modo comprensibile e realistico.

In attesa del prossimo post che verificherà a che punto siamo rispetto alla diffusione di queste best practices, chiedo a voi quali sono le lezioni che abbiamo appreso sulla collaboration negli ultimi anni e che non appaiono in questa lista.

Emanuele Quintarelli

Entrepreneur and Org Emergineer at Cocoon Projects | Associate Partner at Peoplerise | LSP and Holacracy Facilitator

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