L’Enterprise 2.0 nel fiume della cultura

Come alcuni di voi avranno letto, domani sarò sul palco a Francoforte all’Enterprise 2.0 Summit per affrontare un tema ancora poco dibattuto anche nella comunità internazionale, ma sempre più caldo mentre la diffusione degli approcci collaborativi e participati esce dai confini del Nord America per essere declinata anche in Europa ed Asia:

Enterprise 2.0 in European Corporations: A Multi-Cultural Challenge
In contradiction to the U.S., pan-European companies are facing specific issues in regards to the different cultural backgrounds of their workforce. This panel discusses best practices and strategies to overcome these multi-cultural challenges for enterprise-wide adoption

Insieme a Mark Masterson, Bertrand Duperrin, Frank Schönefeld e Craig Hepburn ci porremo alcune domande sull’impatto della cultura sull’adozione, l’uso e sulla stessa possibilità di introdurre il social software all’interno di organizzazioni e paesi con valori, pratiche, storia ed abitudini. In vista del panel anticipo qui velocemente alcune riflessioni.

Lo spunto alla discussione è stato fornito da Mark nel suo post Can social software “work” in Germany? In modo volutamente provocatorio, Mark si chiede quanto gli strumenti di collaboration che abbiamo oggi siano in grado di dare risposta alle peculiarità locali di ogni paese, permettendo di raggiungere gli obiettivi di business che l’azienda si attende anche all’interno di contesti molto diversi da quello anglo-americano in cui l’Enterprise 2.0 è stata pensata. La domanda non è per nulla retorica, data la ridotta disponibilità di letteratura, riflessioni e best practices di fronte ad una evidente difficoltà delle organizzazioni globali o multinazionali nel trarre il massimo da progetti di collaboration che vanno oltre i confini del singolo paese.

Dopo essermi confrontato con un gruppo piuttosto ampio di amici e colleghi con precedenti esperienze all’interno di culture diverse (tra cui Thomas Vanderwal, Peter Boersma, Ming Kwan, Stuart French, Norman Lewis), sono arrivato alla conclusione che la domanda di Mark sia in realtà malposta. Vediamo perchè.

E’ sotto gli occhi di tutti che ogni paese sia contraddistinto da una serie di norme, comportamenti, aspettative, regole sia codificate che tacite totalmente differente. Se queste peculiarità introducevano un impatto già considerevole nella progettazione di artefatti come software e siti web in cui sostanzialmente il contatto avveniva tra singolo utente e artefatto, i riflessi sugli strumenti collaborativi sono intuitivamente ancora più profondi, data l’enfasi che questi pongono sullo scambio molti a molti, sul connettersi, conoscersi, condividere, comunicare, discutere. In una parola interagire in una dinamica di community.

Una lista, assolutamente non esaustiva, ma quantomeno concreta di funzionalità largamente disponibili nelle piattaforme Enterprise 2.0 che potrebbero risentire di divergenze culturali sono:

  • la proprietà dei contenuti pubblicati dagli utenti (personali o dell’azienda?)
  • gestione della privacy (sia da un punto vista dei timori individuali che legale)
  • disponibilità di strumenti evoluti di social network analysis in grado di mostrare visivamente quanto ed in che modo il singolo individui partecipa all’interno del gruppo (in Italia a volte c’è addirittura la paura dei sindacati..)
  • pubblicare contenuti che riprendano e modifichino quanto già condiviso da altri (foto, video, testi, etc..)
  • cancellare contributi di altri utenti, eventualmente superiori nella gerarchia aziendale
  • effettuare editing di contributi pubblicati dai colleghi, piuttosto che limitarsi a commentare
  • prevedere trasparenza, apertura ed assenza di workflow approvativi come comportamento di default (piuttosto che considerare ogni spazio chiuso, finché a meno che non vengano esplicitamente stabiliti privilegi diversi)
  • accettare l’amicizia e connettersi con utenti che non si conoscono
  • pubblicare la propria foto ed informazioni personali (potenzialmente non lavorative) all’interno del profilo
  • dare la propria disponibilità ad essere contatti da altri utenti, a prescindere dalla posizione nella gerarchia e senza passare per i propri superiori
  • leggere/scrivere contenuti in un’altra lingua (per es. inglese)
  • l’importanza di un accesso in mobilità (sempre più centrale per alcune figure professionali, dipartimenti, paesi)

Tutte queste azioni vanno in qualche modo a toccare il senso di apertura, la propensione ad aiutare gli altri, un focus più sul gruppo che sul singolo, una certa informalità, un’accettazione del nuovo ed una predisposizione allo scambio anche non codificato all’interno dell’impresa.

Quanto queste dimensioni sono allora legate alla cultura nazionale (o alle culture nazionali in paesi con minoranze diverse) e quanto a dimensioni più organizzative o individuali? E quanto forte è il supporto necessario da parte del social software nello stimolare uno sviluppo più marcato di doti sociali a volte non presenti?

Uno strumento molto interessante per comprendere il peso della cultura nazionale è fornito dalla ricerca di Geert Hofstede, che in IBM a partire dagli anni 70 ha tentato di confrontare i paesi e le regioni geografiche del globo in base a 5 dimensioni culturali:

  • Power Distance Index (PDI) – livello di accettazione dei membri meno privilegiati di una distribuzione ineguale del potere. Insomma si tratta di quanto la gerarchia, il potere, la differenza di ruoli sia accettata e rispettata non solo dai leader, ma anche da chi è alla base della piramide
  • Individualism (IDV) – grado in cui gli individui sono focalizzati su stessi o sono al contrario integrati nei gruppi (collectivism). In una società individualista ognuno pensa unicamente a sè ed alla propria famiglia. In una collettivista gli individui sono più portati a rimanere connessi ed a supportarsi nel tempo grazie a gruppi allargati e spesso comunque ben coesi
  • Masculinity (MAS) – con il suo opposto femininity indica la forza dei caratteri più marcatamente maschili ovvero di competitività e fiducia in se stessi nella società. In una società mascolina anche le donne tendono a diventare più sicure e competitive, ma mai come gli uomini, mantenendo sempre un gap in questi caratteri tra i sessi
  • Uncertainty Avoidance Index (UAI) – ha a che fare con la tolleranza verso l’incertezza, l’ambiguità, le situazioni non strutturate o, in altri termini l’apertura verso la novità, situazioni inattese. Una società con un alto UAI  (che evita l’incertezza) cerca di minimizzare il rischio stabilendo regole stringenti, spingendo sulla sicurezza e su una visione centralizzata del mondo. Al contrario i paesi che accettano l’incertezza stimolano una maggiore diversità di vedute ed opinioni
  • Long term orientation (LTO)  è una dimensione aggiunta in seguito guardando al mondo asiatico per enfatizzare perseveranza e parsimonia o al contrario un rispetto per la tradizioni, gli obblighi sociali e la propria reputazione nel caso di una Short term orientation

Per l’Italia i livelli sono questi:

Gli studi di Hofstede riflettono una società precedente all’introduzione di Internet e qualunque conclusione deve essere per questo presa con le pinze. Per fare alcuni esempi, l’indice di distanza dal potere (particolarmente alto ad esempio in Francia) impone un rispetto della gerarchia e potrebbe significare una bassa propensione a rimuovere informazioni caricate da altri. Al contrario un forte carattere mascolino (come avviene in Giappone) implicherebbe il sentirsi a proprio agio nel prendere l’iniziativa e creare nuovi contenuti o infine un basso indice di rifiuto dell’incertezza potrebbe implicare un lavorare bene in ambienti emergenti e non strutturati come quelli di un wiki. Tutti gli indici hanno un valore puramente relativo ed in ogni caso si applicano solamente a livello di nazione, non di regione, singola azienda o dipartimento.

Online è possibile anche generare al volo dei confronti come il seguente tra Italia e Stati Uniti o tra Stati Uniti e Germania:

Come rapportare questi numeri di fronte a milioni di utenti che utilizzano Facebook indifferentemente da quasi ogni paese o al fatto che molti social network da centinaia di milioni di utenti sono nati in Asia? E che dire del fatto che l’Enterprise 2.0 per sua stessa definizione dovrebbe essere inclusiva, facile da usare, flessibile?

Diversi studi mostrano come effettivamente simili metriche abbiamo un impatto sull’utilizzo di strumenti online, ad esempio l’editing in Wikipedia, ma benché le dimensioni culturali di Hofstede ci diano una guida per inquadrare le differenze culturali partendo da una base scientifica, rimangono almeno tre serie limitazioni:

  • i dati non sono completamente aggiornati, nè pensati per spiegare l’impatto sui social media
  • non ci danno nessuna indicazione ad una granularità maggiore della nazione e sono quindi scarsamente utili sui progetti reali all’interno di un’organizzazione o verso i clienti
  • non tengono minimamente in considerazione influenze culturali diverse da quelle del paese

Altri lavori suggeriscono invece come ragionare sulle influenze nazionali non sia per nulla sufficiente nel comprendere il modo in cui gli utenti decidono di adottare gli strumenti, per esempio perchè in alcuni ambiti la cultura organizzativa è più forte degli aspetti nazionali. La riflessione allora andrebbe più propriamente allargata ad una plurità di sfere culturali che influenzano il comportamento di un individuo: la cultura della regione di provenienza, del settore di appartenenza dell’impresa, del ruolo funzionale della persona, del suo background professionale, etc.

Insomma ci si rende in fretta conto di come lo stesso concetto di cultura ci porti un pò fuoristrada, essendo più un segnaposto per una serie di comportamenti complessi, che emergono dinamicamente dal comporsi delle azioni dei singolo individuo che un oggetto statico, ben definito. Un pò come un fiume che, pur seguendo di norma il suo letto, al suo interno è in realtà costituito da una quantità enorme di goccioline indipendenti, ma in grado di interagire l’una con l’altra, disegnando un proprio percorso e muovendosi con una propria velocità (ho tratto questo esempio da Stuart French).

Cosa dobbiamo allora trarre da simili riflessioni nel momento in cui si ha l’esigenza di far lavorare al meglio gruppi con culture oggettivamente diverse e che risposta dobbiamo dare al quesito posto da Mark?

Le mie conclusioni sono le seguenti:

  • Le differenze culturali impattano a volte pesantemente le modalità di adozione ed uso degli strumenti sociali. Non tenere conto di questo aspetto può provocare il fallimento dei progetti di collaboration
  • Creare versioni localizzate (una per la Francia, una per la Germania, una per l’Italia) degli strumenti non rappresenta però assolutamente una risposta al problema, perchè non considera la complessità delle molteplici sfere culturali a cui ogni individuo, gruppo, dipartimento ed organizzazione viene sottoposto nella realtà. Tra l’altro una soluzione simile sarebbe difficilmente accettabile da una multinazionale che ha molto spesso l’obbligo di scegliere e gestire una sola soluzione per tutti i suoi dipendenti
  • Il problema non è capire se il social software (sviluppato in America) possa essere utilizzato in altri paesi perchè chiaramente ciò avviene già, ma massimizzare i ritorni degli investimenti derivanti dall’Enterprise 2.0

Per raggiungere il nostro scopo ed aiutare realmente i clienti, piuttosto che frammentare lo sviluppo delle piattaforme sociali, abbiamo bisogno di strumenti così intelligenti, flessibili, emergenti, freeform e da poter essere adattati e fatti evolvere senza sforzo in base alle esigenze di ogni organizzazione e di ogni individuo che in essa lavora.

Se le implicazioni culturali possono aiutarci a costruire soluzioni così intelligenti e adattive, è invece il processo di adozione che deve calare queste soluzioni sul contesto specifico in cui saranno introdotte, tramite attività di co-design di servizi, contenuti e funzionalità aggiuntive che coinvolgano direttamente e dall’inizio gli utenti finali, trasmettendo loro la ownership del progetto e costituendo il nucleo centrale di una nuova community.

Per chiudere allora la domanda non è se il social software funziona o meno in paesi non anglo-americani, ma come può essere usato, diversamente in ogni paese, per fare leva più su ciò che accomuna che su ciò che divide le persone, certamente tenendo conto delle influenze culturali.

Per approfondire,  il mio consiglio è quello di andare a leggere per intero il post di Stuart dopo la nostra chiacchierata.

Emanuele Quintarelli

Entrepreneur and Org Emergineer at Cocoon Projects | Associate Partner at Peoplerise | LSP and Holacracy Facilitator

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