Enterprise 2.0 verso l’adolescenza – Parte 2

Nel post di questa mattina abbiamo visto come a partire dal 2006, la diffusione dell’Enterprise 2.0 nelle imprese abbia portato alla luce una serie di tattiche, best practice e lezioni che possono essere di aiuto a coloro che si avvicinano oggi alla collaboration come leva per il miglioramento dell’organizzazione, della sua performance e del suo posizionamento sul mercato.

A partire dal nuovo report The State of Enterprise 2.0 Collaboration appena pubblicato da Chess Media Group, verifichiamo ora quanto la comprensione e l’utilizzo di queste indicazioni sia diffusa tra le aziende e di conseguenza quanto queste stiano facendo propri i principi più profondi dell’Enterprise 2.0.

Partendo da un’indagine online su 230 imprese piccole e grandi, sparse in Europa, America ed Asia, lo studio si propone di affrontare le dimensioni seguenti:

  • Il livello di maturità dell’Enterprise 2.0
  • Il modo in cui le organizzazioni si sono strutturate per affrontare l’Enterprise 2.0 (ownership, sponsorship, business driver, allocazione dei budget, etc)
  • I risultati raggiunti in termini economici, di adozione e di soddisfazione dei partecipanti alle iniziative

Dall’analisi emergono al contempo segnali incoraggianti sull’alto livello di curiosità e sulla diffusione ormai capillare dei progetti, ma anche grandi spazi di miglioramento alla luce delle best practice condivise nella prima puntata. Andiamo in ordine.

Maturità dell’Enterprise 2.0

Come abbiamo avuto modo di sostenere in passato, il primo elemento che salta agli occhi è l’apparente lentezza con cui la collaboration si sta diffondendo tra i dipendenti. Benché il fenomeno abbia ormai superato l’hype entrando in più della metà delle imprese, questione diversa è la pervasività dei nuovi approcci all’interno della singola realtà:

Se complessivamente il 30% degli intervistati dichiara che più della metà dei dipendenti è attivamente (è questo è l’avverbio importante) a bordo, in quasi il 60% dei casi la maggior parte degli utenti potenziali ancora non è stata ingaggiata. Questi numeri continuano a testimoniare senza ombra di dubbio la caratteristica ancora sperimentale e dipartimentale dei progetti.

Parlando di dipartimenti, i più attivi risultano essere Vendite / Business Dev, Marketing, IT / Operations con Innovazione e Sviluppo Prodotti che segue un pò distanziato.

Il fatto che l’IT sia numericamente la funzione più presente, ma solo in terza posizione in quanto ad utilizzo effettivo degli ambienti, ci ricorda come per raggiungere risultati di business la collaboration debba essere declinata e mirata al business, non vista come fine a se stante. E’ interessante notare come i dipartimenti più attivi siano diversi in base alla dimensione dell’azienda con una maggiore propensione all’innovazione da parte delle grandissime imprese, una spinta prevalente sulle vendite nelle piccole ed esigenze più di comunicazione e staff nel mezzo.

Oltre all’adozione, bisogna ovviamente ragionare anche in termini di resistenza presente in circa il 70% dei progetti innanzitutto tra manager, utenti ed in seconda battuta il dipartimento IT:

Per i manager è principalmente una questione pragmatica di valore percepito. Che si parli di priorità strategiche, ritorni sull’investimento, contributo al raggiungimento di un qualche target aziendale, poco meno di un terzo di loro stenta a comprendere gli impatti positivi della collaboration sul business. Cultura, denaro e risorse da dedicare vengono decisamente in secondo piano.

Per gli utenti la barriera è legata all’apprendimento di nuove tecnologie (leggi modi di lavorare), alla mancanza di tempo (leggi scarsa rilevanza individuale), abbondanza di altre piattaforme in conflitto con quelle collaborative che si vogliono introdurre (leggi scarsa integrazione e focus più sulla tecnologia che sul bisogno). In generale il tema della formazione e della rilevanza sono ancora più pressanti se si considera altre due resistenze simili come l’assenza di interesse da parte degli utenti e la difficoltà di passare al nuovo approccio.

Infine per l’IT, insieme ad una serie di resistenze collocate tutte più o meno allo stesso livello e risolvibili con relativa facilità (problemi di integrazione, difficoltà tecniche, costi e tempi di deployment, sicurezza), spiccano ancora ostacoli dovuti alla scarsa priorità dell’investimento in social software.

In generale, numero anche qui abbastanza curioso, dal 35% al 44% degli intervistati sostiene invece di non aver incontrato resistenze di alcun tipo. Considerata la complessità del percorso di cambiamento, della varietà degli interlocutori in gioco e della novità del fenomeno, ciò non può che stupire.

Sponsorship, Business Driver e Ownership

Alcune indicazioni non banali arrivano anche per quanto riguarda il modo in cui l’organizzazione si rapporta e si struttura per affrontare l’Enterprise 2.0.

La scintilla, la spinta iniziale arriva in circa l’80% delle risposte almeno in parte dal basso, mostrando con forza come una maggiore connessione, un più netto senso di appartenenza, la condivisione di conoscenza e risorse, la possibilità di prendere decisioni in modo distribuito siano esigenze realmente sentite dai dipendenti:

Come si vede, per più della metà dei partecipanti alla survey l’approccio è inoltre misto, contemporaneamente dall’alto e dal basso, nella convinzione che una più ampia condivisione possa servire politicamente a raggiungere un buon commitment ed operativamente ad attirare un bacino più ampio di partecipanti. Anche in studi precedenti, come quello del 2.0 Adoption Council, questa strada era quella che emergeva dalle iniziative più mature.

Un doppio coinvolgimento linea di business e IT salta all’occhio anche nella responsabilità di gestire il progetto una volta avviato (46% dei casi contro un 15% del solo IT ed un 28% delle sole business unit).

E’ certamente una ottima novità il fatto che il business sia coinvolto in totale in circa i 3/4 dei progetti, quando fino ad alcuni anni fa era l’IT a farla da padrone schiacciando l’iniziativa verso questioni unicamente tecniche poco centrate sui bisogni degli individui e sul valore per l’azienda.

La collaboration viene vista come leva non solo di efficienza, ma anche di innovazione e competitività. Le ragioni principali per cui i progetti vengono messi in pista spaziano per questo dal connettere i dipendenti, migliorare la produttività, coltivare innovazione e coinvolgimento, capitalizzare la conoscenza e ridurre la duplicazioni degli sforzi:

Dove inizia ancora ad emergere con chiarezza l’immaturità del settore è però nel modo in cui il raggiungimento di questi obiettivi viene perseguito.

Dalle risposte della survey è evidente un approccio scarsamente sistemico all’Enterprise 2.0 in cui :

  • Una strategia complessiva di lancio ed adozione è preparata a monte del progetto solo nel 19% dei casi. Un approccio che parte dagli strumenti o da piccoli esperimenti prima di arrivare ad un quadro complessivo è invece quasi sempre la norma.
  • L’utilizzo di pilot nel 66% degli intervistati oltre all’essere uno stratagemma per mitigare rischi e resistenze potrebbe nascondere un’incapacità o paura di applicare i principi dell’Enterprise 2.0 su tutta l’azienda. Questo passaggio non è mai banale e richiede accorgimenti diversi da quelli del pilot

Performance Economica e Soddisfazione

Ciò che riassume ancora più efficacemente la difficoltà nell’inquadrare nel modo giusto l’Enterprise 2.0 è però l’allocazione dei budget.

La fetta più ampia (più del 34%) finisce in tecnologia che, per quanto fattore abilitante centrale, non può sopperire all’assenza di una strategia (9% del budget), di un piano di community management e creazione di contenuti, di formazione (5%) e coinvolgimento degli utenti, del supporto al cambiamento.

La situazione è ancora più lampante parlando di metriche e ritorni:

  • Nonostante la pressione sui risultati, solo il 25% dei progetti si è preso la briga di declinare degli indicatori di performance

  • Solo il 12% di questi li ha raggiunti o superati con un impressionante 48% che pur avendo definito dei KPI non li utilizza per misurare
  • Infine anche aldilà dei indicatori quantitativi, un qualche tipo di impatto economico è stato percepito chiaramente in meno del 30% dei casi
  • Aldilà delle frequenti discussioni nei social media sul ROI, per il 73% dei progetti calcolare un ritorno economico non è necessario. Raggiungere un obiettivo o aver risolto un problema di business è invece più che sufficiente.

Conclusioni

Lo studio pubblicato da Chess Media Group traccia i contorni di un’Enterprise 2.0 un pò diversa da quella di alcuni anni fa in cui il fenomeno si è radicato maggiormente nelle aziende e nei loro dipartimenti coinvolgendo in modo attivo un numero crescente di dipendenti. Anche le ragioni per cui i progetti vengono lanciati superano il mero efficientamento dai processi per sostenere la spinta innovativa e competitiva dell’impresa.

Il cammino è tuttavia ancora incompleto. Ciò che manca maggiormente è una comprensione profonda del potenziale strategico dell’Enterprise 2.0 oltre che dei dettagli operativi di come diffonderne i principi sull’intera organizzazione. Questo segnale non dovrebbe però stupire più di tanto data la relativa novità del fenomeno e la differenza sostanziale tra una corretta adozione della collaboration ed il deployment di progetti IT tradizionali.

Per raccogliere ritorni significativi le imprese devono iniziare a:

  • Legare strategicamente collaboration ed obiettivi di business
  • Definire ed attuare un processo di change management capace di implementare la strategia
  • Integrare community e coinvolgimento degli utenti ai processi esistenti
  • Allocare risorse e competenze dove davvero conta
  • Misurare con costanza i risultati ottenuti ed utilizzarli per raffinare le attività di community management e comunicazione

E voi cosa pensate del report? A che punto siamo con la maturità dell’Enterprise 2.0? L’Italia è così indietro?

Emanuele Quintarelli

Entrepreneur and Org Emergineer at Cocoon Projects | Associate Partner at Peoplerise | LSP and Holacracy Facilitator

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