E’ forse dal momento stesso in cui ho iniziato ad occuparmi di Enterprise 2.0 che ho desiderato capire in che modo avrebbe potuto funzionare un’impresa in cui scambi formali ed informali si supportassero gli uni con gli altri, in cui le community fossero finalmente integrate ai processi, in cui l’intero patrimonio di conoscenza dell’ecosistema aziendale potesse essere acceduto, utilizzato e rinnovato fluidamente da tutti gli attori. Non tanto un mondo fatto esclusivamente di 2.0, quanto uno in cui il social è visto come strumento di accelerazione degli stessi obiettivi che le aziende si sono sempre poste.
Negli anni, questa curiosità, condivisa evidentemente da molti altri osservatori e da tante organizzazioni, ha determinato una sostanziale convergenza tra partecipazione dei dipendenti (Enterprise 2.0), coinvolgimento dei clienti (Social CRM) ed innovazione aperta (Open Innovation) sotto il cappello comune del Social Business. Ciònonostante, aldilà della visione di alto livello e di una roadmap di massima, fino ad oggi una serie di resistenze e miopie strategiche ha pesantemente rallentato l’adozione di simili meccanismi orientati alla co-creazione di valore attraverso i confini dell’impresa.
Guardando a piani economici, organizzativi, tecnologici in particolare le aziende hanno fatto fatica a
- Business: posizionare il social all’interno di un quadro che fosse comprensibile per il senior management e potesse restituire chiari ritorni di business
- Adozione: garantire il raggiungimento di una massa critica di partecipazione per raggiungere il ritorno dell’investimento
- Tecnologia: ricollocare sistemi e servizi predisposti nel tempo all’interno del nuovo paradigma
- Strategia: capire da un punto di vista organizzativo e dei flussi di lavoro in che modo allineare e mettere insieme community esterne di clienti, community interne di dipendenti e partner, processi codificati
In realtà, queste domande sono in larga misura manifestazioni di una difficoltà spiegata perfettamente dalla mia amica Laurie Buczek di Intel in “The Big Failure of Enterprise 2.0 Social Business“:
The big failure of social business is a lack of integration of social tools into the collaborative workflow…
The foundation for which enterprises are building their social collaborative house is cracked. If you add more layers, the fissures widen. If you don’t provide the “easy button” with integrated tools that are “just there” in your workflow, adoption will not cross the chasm. Culture will not change. Enterprise 2.0 social business becomes the bad sequel to Knowledge Management.
Ovvero abbiamo finalmente capito che non c’è Enterprise 2.0 senza enterprise. Non c’è Social Business senza business.
Lo stesso concetto dell’inserire la collaboration all’interno del contesto in cui ognuno di noi lavora era stato in realtà già proposto nel 2007 da Michael Idinopulos nel suo In the Flow and Above the Flow, più volte da Sameer Patel, in modo molto esaustivo da Nenshad Bardoliwalla e recentemente anche da Andrew McAfee. Come ammesso candidamente da Laurie, gli stessi pionieri dell’Enterprise 2.0 non sono ancora riusciti a mettere totalmente a fuoco quest’idea di integrazione che si è al più fermata al socializzare un singolo processo (come il Social CRM o il Social Product Development), ma non ha portato una visione complessiva di evoluzione dell’intera catena estesa del valore dell’azienda.
Con l’appena conclusosi Dreamforce 2011 (potete leggere qui tanti ottimi spunti dall’evento sempre da Sameer) a mio avviso però qualcosa è cambiato. Da un’attenzione verticale sul singolo processo, sta finalmente venendo il tempo di passare alla socializzazione dell’intero ecosistema di business.
In che modo procedere? Per socializzare il business, non si può iniziare dal social. Si deve prima di tutto ricostruire i costrutti su cui ogni azienda si basa. Riutilizzando la catena del valore di Michael Porter ed il bel post di Neshad, ho provato per questo a sintetizzare nel diagramma che segue alcuni dei processi principali che regolano la stessa esistenza di un’impresa dall’identificazione dei partner, alla creazione, promozione e vendita del prodotto, fino al supporto ed alla relazione con il cliente:
In altri termini, in via generale, ogni azienda crea valore:
- coinvolgendo partner, fornitori, dipendenti, clienti dentro e fuori dall’impresa (ecosistema esteso)
- affrontando orizzontalmente una serie di fasi (gestione fornitori, progettazione, gestione delle materie prime, produzione, logistica, marketing, vendita, customer service, relazione con il cliente)
- svolgendo attività primarie (come il CRM, lo sviluppo del prodotto, la gestione di fornitori e materie prime, il marketing, le vendite, il supporto, etc) e di supporto (come la gestione delle HR, i servizi tecnologici ed infrastrutturali, il controllo dei costi)
Socializzare un business, significa allora socializzarne i costrutti di base, ovvero i processi che ne rendono possibile il funzionamento intorno agli individui in essi coinvolti.
In che modo la collaborazione, la circolazione dell’informazione, la partecipazione attiva di tutti gli stakeholder può essere applicata in modo puntuale, ma coordinato ed integrato all’intera catena di creazione del valore?
A mio avviso così:
Esistono 4 stadi di socializzazione della catena del valore:
- Community isolate e fuori dal flusso (di dipendenti o clienti). E’ il punto di partenza per ogni azienda nel momento in cui si inizia a sperimentare la partecipazione di clienti, dipendenti ed altri attori dell’ecosistema tramite community nate dal basso o in ogni caso svincolate dai preesistenti flussi di lavoro delle persone in azienda. L’investimento iniziale è basso, non c’è integrazione, ma il progetto fa più fatica a raggiungere una massa critica di adozione ed i ritorni tangibili sono molto difficili da misurare. Quasi tutti i vendor di enterprise social software (Jive, Telligent, Yammer, NewsGator, SocialText, etc) hanno iniziato da qui.
- Community fuori dal flusso a supporto di un processo tradizionale. Il passo successivo consiste nel riconoscere la complementarietà di community e processi andando ad affiancare ad un flusso di lavoro, che rimane tradizionale, strumenti sociali in grado di catturare le eccezioni al processo, gli scambi non codificati, la conoscenza tacita necessari per far funzionare il processo. Lavoro strutturato e destrutturato non sono integrati, ma solamente affiancati in modo lasco (di questo approccio ha scritto anche Cecil Dijoux). I ritorni diventano più tangibili perchè si può andare a misurare lungo il processo i benefici, ma gli utenti subiscono il fastidio di dover cambiare contesto per svolgere il proprio lavoro (processo tradizionale) e collaborare (community fuori dal flusso). L’adozione è a rischio. Dopo un approccio sconnesso dai sistemi aziendali, i leader del Social Software stanno tutti sviluppando connettori, adapter ed altri meccanismi per integrarsi con sistemi di gestione documentale, CRM ed altri servizi a supporto dei flussi tradizionali
- Processo socializzato. Per garantire l’adozione da parte degli utenti è necessario far convergere processo tradizionale e collaborazione offrendo un unico luogo in cui il lavoro viene eseguito. Commenti, post, status update, documenti creati in gruppo vengono finalmente collocati nel flusso del lavoro, diventando semplicemente funzionalità aggiuntive del vecchio sistema che diventa sociale ed eventualmente si integra con le community interne ed esterne di interesse (es. community di supporto in rete per il customer care, community sul prodotto per il CRM). I processi, per quanto socializzati, rimangono silos a se stanti, supportati da soluzioni tecnologiche che non si parlano tra loro. Avremo un vendor per il Social CRM, un vendor per il Social PLM (vedi per esempio il post di Jim Brown), un vendor per l’HR 2.0. Questa stadio è stato avviato ed è al centro della nuova value proposition di Oracle WebCenter, anche se richiederà molti anni per essere portato a compimento.
- Integrazione dei processi socializzati. Dreamforce e la visione proposta da Salesforce stanno mostrando che si può fare molto di più dell’andare a creare una miriade di altri processi, seppur socializzati. Predisponendo una serie di servizi comuni (collaboration da poter essere utilizzata per evolvere i sistemi tradizionali, gestione unificata delle identità, un meccanismo di business intelligence integrato che sia al contempo sociale e transazionale, un layer di activity streams che peschi aggiornamenti da tutti i sistemi e le renda il social object della collaboration per tutta l’impresa) non solo la partecipazione avviene nel contesto del processo, laddove veramente può incidere e garantire ritorni consistenti, ma tutti i processi iniziano a produrre aggiornamenti (status update) che confluiscono in un unico stream (vedi Tibbr di Tibco, Chatter di Salesforce, in larga misura il nuovo Oracle Social Network basato su Webcenter). Tramite questo stream gli individui possono rimanere aggiornati in tempo reale su tutto quanto avviene in azienda (sia che si tratti di eventi generati da altri individui, che di output prodotti automaticamente dalle applicazioni disponibili), ma soprattuto possono collaborare in modo contestuale su quegli eventi (per es. commentandoli, aggiungendo informazioni, lanciando una video call) e fornire dei feedback che tornano indietro bidirezionalmente verso il processo (es. dallo stream posso cambiare lo stato di un’opportunità nel sistema di Sales Force Automation). Force.com è in fondo una piattaforma nel cloud che mette in condizione aziende indipendenti da Salesforce di costruire le proprie applicazioni, aggiungere servizi sociali standard già pronti da riusare e beneficiare automaticamente del layer di integrazione fornito da Chatter (vedi quanto stanno proponendo vendor specializzati come WorkDay, Kenandy, Infor, Concur).
Conclusioni
Raramente mi occupo in questo blog di tecnologia. Anche in questo caso, aldilà delle soluzioni tecniche ormai disponibili per realizzare uno scenario di Social Business, ciò che mi preme sottolineare è la visione di lungo termine che sta diventando via via più chiara.
Per percorrere le fasi di maturità del Social Business non è sufficiente introdurre alla cieca social network e community dentro all’azienda. Al fine di evitare il fallimento delle iniziative a causa di una scarsa adozione o l’edificazione di nuovi silos, seppur sociali, le imprese hanno bisogno di abilitare la partecipazione dei propri dipendenti, clienti, fornitori e partner direttamente nel flusso dei processi esistenti.
Questi processi saranno chiamati ad evolvere in base ai criteri dell’Enterprise 2.0 sia inglobando al proprio interno spazi collaborativi che componendo un puzzle di integrazione in cui tutte le interazioni e tutti gli aggiornamenti saranno visibili e utilizzabili in modo bidirezionale secondo una logica che produca valore per il singolo individuo ed ancora più per l’impresa intera.
Molto più che sulla soluzione verticale o sulla sua socializzazione, il futuro del Social Business si giocherà sulla capacità di costruire un completo ecosistema di partecipazione basato su efficaci servizi comuni e componenti finalmente capaci di parlarsi, ma in modo distribuito e flessibile.
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