Perchè Facebook non è una Social Media Strategy

Prendete un qualsiasi brand nel B2C (ma un discorso simile è ormai applicabile anche al B2B) e mettetevi a studiarne la presenza online. Tra i canali appare immancabilmente Facebook con i suoi ads, eventi, foto, post ed apps. Con più di 800M di utenti attivi in più di 70 linguaggi, implicitamente o esplicitamente, per molte aziende Facebook si è ormai affermato come centro o addirittura come focus quasi esclusivo della strategia di intervento sui social media.

Può una strategia appiattarsi quasi esclusivamente ad un singolo canale, per quanto utilizzato? Più nello specifico, è efficace impiegare Facebook come hub per intercettare ed influenzare i consumatori lungo il ciclo di acquisto?

Vista l’enorme attenzione verso Facebook per molti brand la risposta sembrerebbe un netto si. Eppure diversi studi iniziano a suggerire che il puntare tutte le proprie fiches su Facebook alla disperata ricerca di qualche like in più rappresenti una strategia non solo poco solida, ma persino responsabile di mettere a rischio il ritorno dell’investimento. 

Nonostante secondo Facebook 96 tra le 100 aziende più attive nell’advertising stiano utilizzando la piattaforma, il livello di engagement sulle pagine dei brand è sceso del 22% nell’ultimo anno ed anche il tasso di click-through è calato di circa il 20% dal 2009. Anche quando si tenta di riportare i social media all’interno del ciclo di acquisto il 64% delle aziende cita il proprio sito web come il migliore canale per interagire con gli utenti (contro il 4% di Facebook e l’1% Twitter):

e dall’altra parte gli utenti indicano motori di ricerca (circa il 50%) e siti web (circa il 25%) come i posti in cui la propria consapevolezza, considerazione e decisioni vengono influenzate (i social network vanno dal 15 al 18%) anche per prodotti tecnologici.

Se non siete convinti, uno studio di Incyte e GetSatisfaction, ribadisce il messaggio e soprattutto fa emergere diverse best practice ancora poco in voga tra chi si occupa di social media marketing, come la superiorità delle branded community sui social network pubblici:

  • Nei social network pubblici gli utenti cercano i propri amici (70%) o le proprie passioni (45%), non una relazione con le aziende (12%)
  • In molte fasi del ciclo di acquisto, la prima scelta sono i canali controllati dall’azienda: all’81% contro il 20% circa di Facebook quando si tratta di conoscere meglio un prodotto e all’89% contro il 21% di Facebook per trovare supporto / prendere una decisione di acquisto.
  • Pur a distanza da sito web, email e punti vendita, le branded community (27%) sono più utilizzate dei social network pubblici (21%).
  • Il contenuto considerato di maggiore qualità dagli utenti non è quello dei brand (10%), ma quello creato dai propri pari online (50%)
  • All’interno delle branded community ci si attende soprattutto di trovare informazioni velocemente (32%), con accuratezza, eventualmente da altri utenti (21%), non di socializzare con il brand
  • Facebook è il miglior approccio per invitare utenti all’interno della propria branded community (64.5%) o per condividere quanto creato all’interno della stessa (dal 21% al 35%) purchè anche qui gli interlocutori siano i propri amici invece del brand
Conclusioni

Cosa fanno vedere con sorprendente chiarezza i numeri? Che limitarsi a scegliere un canale (qualunque canale, ma in questo momento in particolare Facebook) come inizio e fine della propria strategia di ingaggio sui social media è nel migliore dei casi non ottimale.

Una strategia sui social media dovrebbe partire innanzitutto da degli obiettivi di business e da una chiara comprensione del comportamento online delle tribù che si vuole andare ad intercettare, definendo un percorso di coinvolgimento focalizzato sui bisogni del proprio pubblico, più che sulle feature offerte dalla piattaforma.

La scelta dei canali dovrebbe essere funzionale alla strategia senza però dimenticare che in una community controllata dal brand, pur a fronte di uno sforzo iniziale più elevato, si ha accesso ad una serie significativa di vantaggi come:

  • Accesso a dati e statistiche: L’avere a disposizione al 100% i dati sugli utenti pronti per essere utilizzati per estrarne intelligence
  • Facilità di integrazione: Il poter integrare la community con i processi aziendali. Ad es. il CRM per lanciare iniziative commerciali, i sistemi di d’innovazione di prodotto per fare crowdsourcing, il sito di ecommerce
  • Gestione del rischio: evitare di dover sostenere costi improvvisi ed elevati per un repentino cambiamento delle API, delle policy o delle strategie commerciali del social network pubblico utilizzato
  • Personalizzazione totale dell’esperienza grazie ad una customizzazione ad hoc dell’interfaccia

Questo significa che dovremmo chiudere tutte le pagine Facebook del pianeta?

Ovviamente no, ma anche qui il report di Incyte regala qualche sorpresa. Superando il concetto degli influencers scelti a monte dal brand in base a qualche metrica criticabile (vedi alla voce Klout), ben l’82.6% degli utenti di una branded community sarebbero disposti a fare da advocate all’esterno della community stessa. Utilizzando con attenzione gli analytics della piattaforma di community sarebbe allora possibile con facilità trovare coloro che conoscono il prodotto, possono parlare in modo credibile ed hanno già una relazione con il brand per sviluppare WOM per esempio in Facebook..

Quale strategia sui social funziona meglio? 

Come sempre la risposta dipende dall’azienda, dal prodotto, dal pubblico, dagli obiettivi di business.  In quasi tutti i casi è utile ragionare su un hub e su una serie di satelliti che amplifichino l’interazione. In ogni caso sarebbe bene definire questo hub in base ai risultati di business ed al percorso di acquisto dei clienti, più che alla piattaforma maggiormente in voga al momento.

Emanuele Quintarelli

Entrepreneur and Org Emergineer at Cocoon Projects | Associate Partner at Peoplerise | LSP and Holacracy Facilitator

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